I nuovi Stati Uniti d’America: da economia globale a mercato isolato?

La nuova Presidenza degli Stati Uniti d’America ha avviato una serie di azioni che sembrano orientate a proteggere maggiormente l’economia nazionale rispetto alla globalizzazione dei mercati. Quali potrebbero essere le ragioni alla base di una trasformazione così radicale della strategia USA? E davvero questo nuovo orientamento potrebbe essere la soluzione dei problemi americani?

La vittoria di Donald Trump alle ultime elezioni presidenziali poggia sicuramente parte delle sue basi sul malcontento della “classe operaia” americana, che ha visto nel corso degli anni chiudere le industrie nazionali nel nome della globalizzazione. Fra il 2001 (anno di massima espansione prima dell’inizio delle varie turbolenze economiche) ed il 2016 il settore manifatturiero statunitense ha perso oltre 9 milioni di posti di lavoro. Inoltre, il mercato del lavoro americano, per quanto dinamico ed in grado di creare nuova occupazione (i lavoratori occupati sono cresciuti da 137 milioni del 2001 a 151,4 del 2016 pari al +10,5%), non è stato comunque in grado di stare al passo con la crescita della popolazione in età da lavoro, che è passata da 215 milioni di cittadini del 2001 ad oltre 253,5 milioni del 2016 (+18%). Se il tasso di disoccupazione è rimasto sostanzialmente stabile (4,7% nel 2001 e 4,9% nel 2016), si è registrata una forte crescita delle persone che stanno al di fuori del mercato del lavoro, che sono aumentate da 71,4 milioni a 94,4 milioni (+32%). In altre parole, negli USA sono presenti 23 milioni di persone in più che vivono al di fuori del mercato del lavoro (per le definizioni tecniche vedi il nostro precedente articolo “Statistiche e società: il mercato del lavoro”) e che, sommate ai 9 milioni di operai che il posto lo hanno perso, sicuramente hanno avuto un’incidenza nella diffusione di una sensazione di insoddisfazione dell’attuale situazione economica. Dall’analisi delle statistiche non è comunque possibile in nessun modo affermare che gli USA abbiano perso posti di lavoro. È più corretto sostenere che non sono stati in grado di creare un numero di posti di lavoro sufficiente per soddisfare l’aumento della popolazione in età da lavoro.

Ma è possibile individuare nella globalizzazione dei mercati la ragione della “mancata creazione” di un numero di posti di lavoro sufficiente a soddisfare la domanda? E, soprattutto, è possibile affermare ciò per l’economia statunitense patria delle più grandi multinazionali mondiali?

L’analisi dell’andamento del commercio estero statunitense evidenzia che fra il 2001 ed il 2016 il valore delle esportazioni targate USA è cresciuto del +133,6% superando quota 3.100 miliardi di dollari. Per quanto gli USA continuino ad operare con una bilancia commerciale passiva, le importazioni sono cresciute nello stesso periodo in misura inferiore fermandosi al +108,2% arrivando a quota 3.623 miliardi di dollari. I dati, quindi, evidenziano che sicuramente l’economia americana si è maggiormente “internazionalizzata” nel nuovo Millennio, ma che il valore esportato è cresciuto in misura superiore rispetto alla crescita del valore importato. Inoltre, l’analisi dettagliata dei dati evidenzia che il valore delle esportazioni di prodotti manifatturieri è cresciuto del +93%, mentre le corrispondenti importazioni sono cresciute del +87%. Quindi, dai dati, non risulta un effetto connesso con la delocalizzazione industriale, bensì un crollo della domanda interna (tutt’altro problema rispetto a quello sostenuto durante la campagna elettorale).

Fra le azioni “promesse/minacciate” dal nuovo Presidente rientra la completa revisione dei principali accordi commerciali in essere. Fra questi ci sono:
-        L’accordo per l’area di libero scambio con Canada e Messico (NAFTA). Gli USA hanno importato nel 2016 dai due partner commerciali un valore di 637,3 miliardi di dollari (in crescita del +67,8% rispetto al 2001) ed hanno esportato verso i due partner un valore complessivo di 583,7 miliardi di dollari (in crescita del +90,7% rispetto al 2001). Pertanto, seppur vi sia ancora una bilancia negativa per gli USA all’interno di questo accordo si evidenzia come negli ultimi anni gli scambi siano stati maggiormente favorevoli agli USA che non agli altri due partner. Infatti, è notizia di questi giorni che probabilmente il programma del presidente Trump non ha più fra le proprie priorità la revisione dell’accordo NAFTA;
-        L’accordo sulla liberalizzazione doganale con l’Unione Europea. Nel 2016 gli USA hanno importato dalla UE un valore di 595,5 miliardi di dollari (in crescita del +95% rispetto al 2001) mentre hanno esportato un valore di 502,6 miliardi di dollari (in crescita del +103% rispetto al 2001). Quindi, anche in questo caso, oltre ad avere una bilancia dei pagamenti sostanzialmente in pareggio, le esportazioni americane verso l’Unione Europea sono cresciute in misura maggiore rispetto alle importazioni. Anche in questo caso, perciò, un cambiamento di politica tariffaria doganale potrebbe arrecare più danni che benefici all’economia americana;
-        La Cina. La Repubblica Popolare rappresenta il principale creditore americano, grazie anche ad una bilancia dei pagamenti fortemente negativa, che nel 2016 ha raggiunto quota 310 miliardi di dollari. Ma anche in questo caso, le esportazioni americane verso la Cina sono cresciute fra il 2001 ed il 2016 del +585% a fronte di una crescita delle importazioni del +351%;
-        Dinamiche simili (dove le esportazioni USA sono cresciute di più rispetto alle importazioni) si sono registrate anche in altri mercati strategici per gli Stati Uniti, quali il Giappone e la Corea del Sud.

Dalle analisi emerge pertanto che paradossalmente, rispetto a quanto sostenuto dal nuovo presidente, il Nuovo Millennio ha registrato per gli USA un progressivo rafforzamento sui mercati esteri con progressiva crescita di importanza delle esportazioni rispetto alle importazioni. Si può a questo punto comunque approfondire la convenienza per gli Stati Uniti ad operare in un mercato internazionale rispetto a privilegiare le produzioni interne.

Il primo aspetto da considerare è di tipo strategico. Gli USA acquistano attualmente oltre il 15% del valore delle esportazioni mondiali (più del doppio rispetto agli acquisti dei Paesi dell’Unione Europea). Sono pertanto il “principale cliente” e, in quanto tale, fissano le regole degli scambi (decidono le caratteristiche dei prodotti, le condizioni di vendita, le condizioni di pagamento, le regole di funzionamento in generale nonché la valuta da utilizzare). Inoltre, gli USA si configurano come “cliente strategico” per alcuni Paesi (per esempio, Giappone, Sud Corea e Italia) in quanto comprano da tali Paesi molto di più rispetto a quello che vendono. In cambio, tali Paesi danno ospitalità alle strutture militari americane in aree strategiche per gli equilibri mondiali consentendo agli USA una presenza capillare ed una capacità di intervento rapido che funge da deterrente per i potenziali rivali. In quest’ambito il commercio estero viene quindi utilizzato come strumento di geopolitica e rinunciare al commercio estero significherebbe rinunciare al ruolo di superpotenza mondiale.

Il ruolo di “principale cliente” ha permesso agli USA di scegliere la propria valuta per la gestione degli scambi e ciò gli ha permesso di “stampare moneta” nel corso degli anni per onorare i debiti esteri senza far perdere alla moneta stessa potere di acquisto. Infatti, nel momento in cui tutte le controparti detengono debito espresso in dollari americani nessuno ha interesse a far riconoscere un valore inferiore a tale debito. Le ricadute positive di questa condizione per i cittadini americani risultano evidenti: da un lato possono beneficiare di un numero di prodotti e servizi provenienti dall’estero superiore a quanti ne avrebbero potuti teoricamente acquistare. Dall’altro lato, la “stampa di moneta” ha permesso ai Governi americani di aumentare anche la spesa pubblica interna (come da ultimo accaduto con l’amministrazione Obama) e di far crescere il potere di acquisto dei propri cittadini. Tale privilegio, tutto americano, non sarebbe ipotizzabile se gli USA non fossero il principale mercato estero.

Non meno importante è anche il costo di produzione. La produzione nazionale di alcune componenti ha dei costi estremamente più elevati rispetto alla produzione all’estero delle stesse componenti. L’introduzione di misure protezionistiche, infatti, potrebbe comportare un immediato aumento dei prezzi dei prodotti con conseguente diminuzione del potere di acquisto dei cittadini (e del beneficio economico generale). Inoltre, non è detto che il trasferimento in patria di produzioni industriali attualmente estere si traduca in un aumento del numero di posti di lavoro: infatti, se in alcuni Paesi esteri la manodopera costa poco e genera pertanto produzioni ad alta intensità di lavoro, lo spostamento in Patria potrebbe spingere un maggiore ricorso alla tecnologia e tradursi pertanto in una produzione più costosa rispetto alla precedente ma ad alta intensità di capitale. Il risultato finale che si otterrebbe è sintetizzabile in due dinamiche:
-        Aumento del costo dei prodotti con conseguente diminuzione del potere di acquisto dei cittadini al quale non necessariamente corrisponderebbe un aumento sensibile dell’occupazione;
-        Aumento della disoccupazione nei Paesi meno sviluppati con conseguente incremento dei flussi di immigrazione verso i Paesi più sviluppati.

Paradossalmente, quindi, l’introduzione di misure protezionistiche potrebbe portare all’aumento del numero di problemi sociali invece che alla loro soluzione.

Senza parlare infine del “gusto del consumatore”. Se vent’anni fa per comprare un paio di scarpe eravamo costretti a rivolgerci al negozio “sotto casa” dovendo adattare le nostre preferenze ai modelli lì disponibili e, soprattutto, la nostra propensione alla spesa al prezzo imposto dal negoziante, adesso possiamo facilmente rivolgerci tramite internet ad un numero infinito di negozianti che ci permetteranno di trovare la combinazione modello/prezzo che preferiamo maggiormente. E il beneficio di tale possibilità di scelta, tipica di un mercato globale, è difficilmente quantificabile in termini economici.

Tutto ciò non può comunque nascondere il fatto che la globalizzazione è un fenomeno che ha necessità di essere regolamentato, soprattutto rispetto a comportamenti distorsivi posti in essere da grandi operatori economici globali che hanno nel tempo trasformato i benefici del commercio estero in pratiche di elusione fiscale a vantaggio individuale. Il risultato attualmente percepito è quindi quello di aver generato una maggiore povertà. Ma in verità si è creata maggiore ricchezza (il PIL mondiale in dollari costanti è cresciuto del +51% mentre la popolazione è cresciuta del +22%). Ma questa ricchezza è stata ripartita in modo più iniquo. Le nuove strategie politiche non dovrebbero pertanto essere volte a proteggere le produzioni nazionali, quanto ad evitare una distribuzione iniqua del beneficio prodotto. Ma forse è più semplice e personalmente conveniente accusare il commercio estero in sé, mantenendo intatti i privilegi di coloro che hanno abusato delle loro posizioni di forza.

Le analisi riportate nell’articolo sono frutto di nostre elaborazioni su dati delle seguenti Agenzie:
-        US Bureau of Statistics
-        US Bureau of Economic Analysis
-        World Trade Organization – annual report
-        Eurostat
-        World Economic Forum