Manovre correttive e vincoli di bilancio: il ruolo dello Stato

In questi giorni i mass media sono ricchi di notizie in merito alla richiesta di manovra correttiva che la Commissione Europea ha richiesto al Governo Italiano. Senza entrare per il momento nel merito dei presupposti giuridici alla base di tale richiesta (che verranno affrontati in futuri approfondimenti) è possibile invece cercare di capire quali siano le possibili politiche economiche che potrebbero essere adottate per adempiere a tale richiesta e, soprattutto, il ruolo che lo Stato dovrebbe rivestire nell’economia.

È da tempo oggetto di dibattito, infatti, il ruolo che lo Stato dovrebbe avere all’interno di un sistema economico. Se il dibattito relativo alle politiche economiche non ha ancora portato all’individuazione di soluzioni universalmente condivisibili, ancor più incerta può essere considerata l’efficacia della politica fiscale che è una delle politiche economiche adottabili da uno Stato.

Lo Stato, infatti, può avere un duplice ruolo all’interno del sistema economico: da un lato quello di regolamentatore/controllore, dall’altro lato quello di riassegnazione della ricchezza e fornitore diretto di beni e servizi. Nell’ambito del primo ruolo, lo Stato regola il sistema economico affinché esso si muova verso il raggiungimento della massimizzazione della produzione per la Collettività nel suo insieme e, nello svolgimento di questa azione normativa, si accerta anche che gli attori del mercato rispettino le normative emanate. Per riassegnare la ricchezza (nonché per finanziarie i servizi direttamente forniti), invece, lo Stato utilizza le politiche fiscali, che attuano un prelievo forzoso su determinate categorie di attori del mercato per riassegnare le risorse ad altre categorie di attori. È così che le imposte sui redditi da lavoro hanno una progressività crescente (i meno abbienti si collocano in una fascia di esenzione, mentre i redditi più alti pagano aliquote maggiorate) o che alcune forme di attività di impresa hanno una tassazione più elevata (si pensi alle società commerciali rispetto alle imprese agricole).

Se da un lato è tendenzialmente universalmente accettata la consapevolezza che i mercati non possono funzionare autonomamente in modo efficace, dall’altro lato l’effettiva capacità del sistema fiscale di muovere un Paese verso la massimizzazione della produzione è molto più incerta. Ogni tassa e ogni imposta creano degli effetti distorsivi o perché scoraggiano la produzione di maggior reddito (come per esempio le imposte progressive) o perché favoriscono determinate attività di impresa (magari inefficienti) a svantaggio di altre o ancora perché lo Stato non è in grado di perseguire principi di efficacia ed efficienza nella fornitura di beni e servizi, andando così a consumare ricchezza.

Prescindendo dall’approccio meramente filosofico, è possibile operare alcune considerazioni maggiormente pratiche relative alla richiesta di manovra correttiva. Parte della politica fiscale italiana viene stabilita annualmente dal Governo attraverso la Legge di Bilancio. Storicamente le Leggi di Bilancio particolarmente “ampie” hanno un valore che si aggira su 15 – 16 miliardi di euro, pari a circa l’1% del PIL nazionale. Considerato il valore limitato che tali manovre hanno sul valore complessivo del sistema produttivo del Paese e, soprattutto, tenuto conto anche degli effetti distorsivi che generano sul sistema economico, molti studiosi hanno maturato un fondato dubbio che le politiche fiscali siano davvero in grado di raggiungere gli obiettivi socio – economici di un Paese e che non generino, invece, un effetto contrario.

Se si osserva, invece, l’azione di regolamentazione che lo Stato può svolgere si può notare come gli effetti sul sistema produttivo possano essere molto più incisivi rispetto all’appesantimento del sistema fiscale. Negli articoli delle scorse settimane abbiamo osservato come un ripristino dei controlli di frontiera (che pertanto non comporta nessuna variazione alle politiche fiscali) può avere un impatto sul sistema economico del nostro Paese che supera l’1,5% del PIL, pari a oltre 25 miliardi di euro. Oppure si pensi alle sanzioni imposte dall’Unione Europea alla Federazione Russa (e relative controsanzioni): i dati ISTAT evidenziano che nel 2013 (anno pre sanzioni) l’Italia ha esportato circa 10,8 miliardi di Euro verso la Russia, mentre nel 2015 ne ha esportati solo 7,1 miliardi. Anche in questo caso, un semplice provvedimento normativo ha comportato una perdita per il sistema Paese pari a oltre 3,7 miliardi di euro, corrispondente allo 0,2% del PIL. Considerando il livello della pressione fiscale in Italia stimato dalla CGIA di Mestre pari al 43,7% del PIL, significa che i 3,7 miliardi di esportazioni “perse” verso la Federazione Russa corrispondono a mancate entrate tributarie per lo Stato pari a circa 1,6 miliardi di Euro annui, che costituiscono la metà del valore della manovra correttiva richiesta dalla Commissione Europea.

Purtroppo, negli ultimi decenni nella Commissione Europea è prevalsa la visione della predominanza della politica fiscale (soprattutto di breve periodo) rispetto alle politiche orientate alla massimizzazione della capacità produttiva. Tra l’altro, l’analisi degli accordi di bilancio stipulati dai Paesi europei evidenzia che tali accordi non si basano esclusivamente sul valore assoluto del debito o del deficit, ma mettono in relazione tali valori con il PIL, che indica il “reddito” generato dal Paese. Perciò, le politiche economiche adottate a livello comunitario e nazionale dovrebbero muoversi da un lato verso il contenimento della spesa e dall’altro verso la crescita del reddito. Ciò non esclude comunque la necessità di richiamare il nostro Paese ad una maggiore “disciplina di bilancio” considerato che la nostra spesa è passata dai 782 miliardi di euro nel 2009 a 821 miliardi di euro nel 2014 per superare quota 829 miliardi di euro nel 2015.

Se è vero quanto sosteneva Oliver Wendell Holmes che “le tasse sono il prezzo che paghiamo per una società civilizzata” dall’altro lato è anche vero che né a Roma né a Bruxelles si può pensare di rilanciare l’economia del Paese continuando ad aumentare l’imposizione fiscale, soprattutto alla luce del fatto che nonostante la crisi economica il totale delle entrate tributarie del nostro Paese è cresciuto dai 660 miliardi di euro del 2009 ai 704 miliardi del 2014 per superare quota 714 miliardi nel 2015, attestandosi sul 43,5% del PIL (la media dell’area Euro è del 41,4%).

I dati esposti evidenziano anche che nonostante gli sforzi aggiuntivi le entrate non sono ancora in grado di coprire tutte le uscite. E allora è probabilmente vero anche quanto sosteneva Joseph Schumpeter che “lo spirito di un popolo, il suo livello culturale, la sua struttura sociale, le iniziative politiche allo studio, tutto ciò e altro ancora è scritto nella sua storia fiscale”. Noi italiani, alla fine dei conti, chiediamo sempre aiuto allo Stato. E questo aiuto ha un costo.

 

Fonti dati

CGIA Mestre http://www.cgiamestre.com/articoli/24055
ISTAT
Eurostat
Samuelson Paul A. et al (2005) – Economia – McGrawHill